Lo Stretto di Hormuz è attualmente uno dei luoghi strategicamente più importanti della Terra. Si tratta dello stretto che descrivendo una specie di gomito separa la Penisola arabica dalle coste dell’Iran e attraverso il quale transita circa il 40% di tutto il petrolio prodotto nel mondo. Il fatto che questo passaggio marittimo separi le coste dell’Iran da quelle degli Emirati Arabi Uniti (EAU) aumenta considerevolmente la sua importanza.
I percorsi delle navi che lo attraversano, stabiliti a seguito di accordi internazionali e regolamentati severamente al fine di evitare collisioni, fanno sì che le petroliere che passano lo stretto si trovino di fronte, una volta entrate nel Golfo Persico (o Arabico), all’arcipelago composto dalle isole di Abu Musa, Grande Tunb, Piccola Tunb, Bani Furur, Furur, Sirri. Le prime tre sono oggetto di un contenzioso tra Iran ed EAU che risale agli anni ’70 e che continua ancora oggi, dopo quasi 40 anni.
Una breve storia della disputa
La disputa per queste tre piccole isole nasce da cause diverse e vede coinvolti diversi attori: da un lato infatti l’isola di Abu Musa è contesa dall’Iran e dall’emirato arabo di Sharjah, dall’altro invece le due isole Tunb sono contese dall’Iran e dall’emirato arabo di Ras al Khaimah.
Secondo l’Iran, le tre isole hanno fatto parte fin dall’antichità dell’impero persiano, pertanto esse apparterrebbero di diritto alla provincia iraniana di Hormozgan. Gli EAU invece sostengono che, poiché da lungo tempo le isole sono state amministrate dalle popolazioni arabe della Penisola arabica e il carattere della popolazione attuale delle isole è prevalentemente arabo, la sovranità sulle stesse spetterebbe allo Stato emiratino.
Nel 1902, il Regno Unito, che nel frattempo aveva assunto il controllo dell’area del Golfo, riconobbe la sovranità sulle tre isole all’emirato di Sharjah, sollevando così le proteste dell’Iran. Durante il periodo del protettorato britannico, l’Iran propose più volte che Abu Musa restasse a Sharjah e che gli fossero restituite le isole Tunb, più vicine alle sue coste. In risposta, nel 1920 il Regno Unito riconobbe la sovranità dell’emirato di Ras al Khaimah e gli affidò il controllo delle isole Tunb.
Nel 1971 il Regno Unito abbandonò la regione, ritirandosi ad ovest del Canale di Suez e contribuendo così a mutare completamente gli equilibri. Lo Shah iraniano Reza Pahlavi reclamò la sovranità sulle tre isole, sostenendo che esse fossero state unite al territorio degli EAU per volontà di una potenza coloniale, mentre di fatto esse appartenevano storicamente al territorio dell’Iran. L’Emirato di Sharjah, che allora non estraeva ancora petrolio e stava perdendo la propria importanza a vantaggio di Abu Dhabi, la futura capitale degli EAU, scese a patti con l’Iran: l’accordo che risultò prevedeva che la sovranità di Abu Musa sarebbe stata divisa tra Iran, nella parte nord dell’isola, e Sharjah, nella parte sud, e che i due Paesi avrebbero condiviso i giacimenti di petrolio presenti sull’isola e i proventi delle estrazioni petrolifere. In questo modo, nessuna delle due parti rinunciò alle proprie rivendicazioni sulla sovranità dell’isola, ma nei fatti l’accordo sanciva una partizione dell’isola.
Le due isole Tunb non furono menzionate nell’accordo, ma nello stesso giorno in cui l’esercito iraniano si insediò in Abu Musa altre truppe occuparono la Piccola e la Grande Tunb, malgrado l’Iran non avesse preso accordi a riguardo con l’emirato di Ras al Khaimah. Poco dopo nacquero gli EAU, di cui Sharjah e Ras al Khaimah fanno parte, e la questione delle isole Tunb riguardò il nuovo Stato, che protestò vivamente contro questa occupazione. All’epoca però le grandi potenze occidentali, tra cui la Gran Bretagna, erano favorevoli all’Iran dello Shah Reza Pahlavi, visto come unica potenza della regione in grado di garantire stabilità, e gli EAU erano troppo giovani e ancora poco influenti sul piano internazionale, per cui nulla fu fatto per fermare e mettere fine alla permanenza dell’Iran sulle due isole.
Negli anni ’70 la questione delle tre isole occupate dall’Iran non sollevò particolare interesse in ambito internazionale. A partire però della rivoluzione khomeinista del 1979 e dalla prima guerra del Golfo tra Iran e Iraq del 1980, la situazione cambiò radicalmente: la fiducia delle grandi potenze occidentali nei confronti dell’Iran cadde e la guerra tra Iraq e Iran minacciò i pozzi di petrolio e le rotte di navigazione delle petroliere sul Golfo.
Malgrado ciò, la situazione delle tre isole si mantenne immutata negli anni ’80, fino a quando, nel 1992, accadde un fatto i cui risvolti non sono ancora stati totalmente chiariti. In quell’anno infatti l’Iran aumentò il numero di soldati e di missili sull’isola di Abu Musa, assunse il controllo degli ingressi di entrambe le zone, Nord e Sud, e procedette all’espulsione dei lavoratori arabi presenti sull’isola. Gli EAU accusarono l’Iran di aver infranto l’accordo del 1971, annettendo di fatto la parte emiratina dell’isola; l’Iran, d’altra parte, rispose che la popolazione di Sharjah presente sull’isola non era stata toccata, in accordo ai patti del 1971, ma che era stata proibita la residenza a tutti gli altri cittadini arabi.
Un tale gesto da parte iraniana è spiegabile come una reazione agli spostamenti di truppe statunitensi verificatesi nello stesso periodo nell’area. Infatti nell’anno precedente si era svolta l’operazione “Desert Storm”, nell’ambito della seconda guerra del Golfo, e gli EAU avevano offerto i propri porti per far attraccare le navi da guerra statunitensi e i propri aeroporti militari per l’aeronautica degli USA. Questa concentrazione di forze militari nell’area del Golfo allarmò l’Iran, che durante l’estate del 1992 organizzò diverse esercitazioni per i suoi mezzi anfibi e aumentò la propria presenza militare sull’isola di Abu Musa con il duplice fine di creare una barriera difensiva nei confronti degli EAU e di dimostrare agli Stati Uniti che i loro progetti di egemonia sul Golfo avrebbero trovato nell’Iran uno strenuo oppositore.
Da quel momento sono continuate le proteste da parte degli EAU e da parte degli Stati del Consiglio di Cooperazione del Golfo (GCC), che hanno chiesto a più riprese all’Iran di acconsentire a portare la questione dinanzi alla Corte Internazionale di Giustizia dell’Aja. L’Iran, da parte sua, continua a negare l’esistenza di una disputa a riguardo e rifiuta ogni proposta di dialogo.
Nel 2008 il governo degli EAU ha presentato le proprie proteste formali all’incaricato d’affari iraniano ad Abu Dhabi, a seguito della costruzione in Abu Musa, da parte di Teheran, di una capitaneria di porto e di un centro di salvataggio in mare, considerandola come una rivendicazione di sovranità sull’isola. D’altra parte, l’Iran non ha alcun motivo per mettere in discussione lo status quo, dato che, attualmente, ha il controllo sulle tre isole e la sua posizione nei confronti degli accordi del 1971 è difficilmente attaccabile.
Gli interessi in gioco sulle tre isole
Le cause che spingono entrambi i Paesi, EAU e Iran, a reclamare il proprio diritto di sovranità sulle isole sono molteplici, di ordine economico, strategico e culturale.
Una prima importante ragione è la posizione strategica delle isole: esse infatti si trovano all’imboccatura del Golfo Persico, appena oltre lo Stretto di Hormuz, nel mezzo delle rotte marittime seguite dalle navi che trasportano merci e petrolio. A livello militare, una tale posizione diventa fondamentale per Iran ed EAU, in quanto le isole si configurano come un avamposto da cui poter controllare l’intero Golfo. Il significato strategico di questo elemento, però, è diverso per i due Paesi: per l’Iran infatti le isole Tunb e Abu Musa sono una piattaforma ideale per posizionare le proprie truppe e i propri missili a scopo difensivo. Come è già stato detto, lo sviluppo delle relazioni tra EAU e Stati Uniti ha portato nel Golfo ad una massiccia presenza militare ostile all’Iran e il posizionamento dell’esercito iraniano sulle isole e soprattutto su Abu Musa, più avanzata rispetto alle Tunb verso le coste emiratine, permette alla Repubblica Islamica di possedere delle zone-cuscinetto militarizzate e, allo stesso tempo, delle teste di ponte molto vicine non soltanto al territorio degli EAU, ma soprattutto alla loro linfa vitale, il traffico marittimo delle petroliere e delle navi da trasporto. D’altra parte gli EAU temono la presenza iraniana sulle isole non tanto per eventuali attacchi verso il territorio emiratino, quanto piuttosto per il controllo che l’Iran può esercitare sui traffici navali a cavallo dello Stretto di Hormuz. Proprio questi traffici sono le linee di corrente che permettono al fiorente sistema economico-commerciale emiratino, basato soprattutto sul commercio di petrolio, di funzionare e di ottenere sempre maggiori sviluppi. In questo senso, allo stato attuale l’importanza strategica delle isole assume carattere maggiormente militare per quanto riguarda l’Iran, mentre per gli EAU l’importanza strategica è di tipo prettamente economico. I timori degli EAU si riflettono ad esempio nelle recenti dichiarazioni del Ministro degli esteri emiratino, lo sceicco Abdullah Bin Zayed al Nahyan, il quale è arrivato a paragonare l’occupazione dell’isola di Abu Musa da parte dell’Iran all’occupazione della Palestina da parte di Israele. D’altra parte, le reazioni iraniane non sono più leggere: alla fine di aprile 2010, l’Iran ha organizzato una serie di esercitazioni militari nei mari del Golfo Persico e nello stretto di Hormuz utilizzando nuove imbarcazioni veloci equipaggiate di missili e razzi. I portavoce del governo iraniano hanno dichiarato che l’obiettivo di tali esercitazioni sia “riaffermare le capacità di difesa della repubblica islamica e la sua determinazione a mantenere la sicurezza del Golfo persico, dello stretto di Hormuz e del Golfo dell’Oman”. Negli stessi giorni, poi, una pattuglia della marina dei Pasdaran iraniani ha perquisito due navi italiane, con la motivazione ufficiale di verificare il loro rispetto delle norme ambientali; dopo il controllo, le navi sono state autorizzate a proseguire la loro rotta. Simili azioni sottolineano come l’Iran stia cercando di far sentire la propria presenza sul Golfo, senza impegnarsi però in azioni ostili. Da qui i timori degli EAU, per i quali, come è già stato detto, le rotte di navigazione sul Golfo rappresentano le arterie attraverso cui il loro sistema commerciale viene alimentato.
Una seconda ragione per cui Iran ed EAU si contendono le tre isole può essere identificata nella possibilità di sfruttamento delle risorse. Fino agli anni ’70, le tre isole erano abitate da pescatori e da cercatori di perle ed Abu Musa era conosciuta per l’estrazione di ossido ferrico. Negli anni ’70, poco dopo gli accordi tra Iran ed EAU su Abu Musa, è stato trovato un giacimento di petrolio al largo dell’isola. Attualmente, l’Iran e l’emirato di Sharjah traggono guadagno da questo giacimento, secondo gli accordi del 1971, ed entrambi si dicono insoddisfatti dall’esiguità delle risorse che spetta ad ognuno. L’emirato di Sharjah è preoccupato dal fatto che le proprie riserve petrolifere sono in via di esaurimento e sta attuando diverse politiche per aumentare tali riserve. Il governo degli EAU ha recentemente iniziato una joint venture con la compagnia britannica Enterprise Oil per aumentare la quantità di petrolio estratto dal giacimento al largo di Abu Musa. D’altra parte l’Iran è interessato all’isola anche a seguito di alcuni studi sull’area, che avrebbero ipotizzato l’esistenza di un grande giacimento di petrolio proprio sotto l’isola.
Per quanto riguarda le isole Tunb, invece, questa motivazione non sembra sussistere: entrambe non presentano l’esistenza di giacimenti di petrolio, l’ossido ferrico è scarso e di bassa qualità, le uniche risorse presenti sono date dalla pesca. Le due piccole isole, quindi, sono molto più importanti dal punto di vista strategico.
Una terza ragione, infine, è quella di carattere culturale, che si inserisce in un più ampio scontro che riguarda in generale l’Iran sciita, con la sua cultura persiana, e le monarchie del Golfo a maggioranza sunnita, con la loro cultura araba. La posta in gioco di questo contrasto, che si allarga a diversi aspetti delle relazioni internazionali di tutti i Paesi coinvolti, è infatti l’affermazione di una delle due culture come corrente guida di tutto il mondo musulmano. Questo scontro fa costante riferimento al passato e all’autorità che la storia può aver fornito ad entrambe le correnti: in questa prospettiva, lo scontro tra Iran ed EAU si configura come un’ulteriore battaglia culturale locale per l’affermazione, attraverso una sorta di investitura storica, di una delle due tradizioni. Nel caso specifico della storia delle isole Tunb e Abu Musa, è opportuno sottolineare che prima della rivoluzione portata nell’area del Golfo dalla scoperta dei giacimenti di petrolio le popolazioni arabe e le popolazioni iraniane erano essenzialmente tribali e le economie delle località costiere del Golfo si basavano sulle ricerca delle perle, la pesca e, in misura inferiore, gli scambi commerciali. Le isole del Golfo erano utilizzate ugualmente dai pescatori e dai cercatori di perle arabi e iraniani. Questo fatto permette oggi ad entrambi i Paesi, Iran ed EAU, di avanzare pretese di sovranità sulle isole stesse. Di fatto, le isole hanno indubbiamente legami storico-culturali con Sharjah e Ras al Khaimah, e la popolazione arabofona ivi presente ne è prova, ma sono ugualmente indubbi i contatti che le isole hanno storicamente avuto con la regione di Lengeh, nella costa iraniana. Pertanto, la storia fornisce ad entrambi i contendenti validi motivi per affermare il proprio diritto di controllo sulle isole, ma proprio questo fatto rende difficile per entrambi l’identificazione di ragioni che potrebbero escludere l’altro contendente.
Conclusione: quali sviluppi futuri?
Le reazioni internazionali alle rivendicazioni degli EAU sulle isole di Abu Musa e Tunb si sono mantenute su toni generalmente imparziali, malgrado la campagna svolta da Abu Dhabi per internazionalizzare e politicizzare la questione.
Eccetto alcune dichiarazioni della Lega Araba o del GCC a supporto delle posizioni degli EAU, i singoli Stati arabi hanno mantenuto un generale riserbo riguardo alle proprie posizioni a riguardo: certamente pesano le relazioni tra i Paesi arabi e l’Iran sia a livello politico sia a livello economico.
Sulla stessa scia, l’Unione Europea e gli Stati Uniti non hanno preso una posizione chiara sulla questione, limitandosi ad esprimere in diverse occasione il proprio accordo con le rivendicazioni degli EAU, ma non intervenendo in alcun modo. In realtà la questione delle isole Abu Musa e Tunb non sembra avere priorità nelle politiche di sicurezza internazionali, poiché attualmente altri fronti si rivelano molto più complessi. Inoltre la presenza iraniana sulle isole ha finora attuato attività simboliche, ma non certo lesive dei traffici commerciali marittimi o della sovranità del territorio continentale degli EAU. Per questi motivi, la questione delle isole al momento sembra poter essere tralasciata, anche se il posizionamento militare dell’Iran sulle isole del Golfo è un fatto certo e tangibile.
Ne risulta che, essendo le isole effettivamente controllate dall’Iran e rifiutandosi l’Iran di discutere la questione, il solo modo di mutare lo status quo attuale sembra essere l’opzione militare da parte degli EAU. Questa opzione però sembra alquanto improbabile. Infatti le fortificazioni e gli armamenti iraniani sulle isole renderebbero difficile l’attacco e l’occupazione da parte degli EAU, e inoltre in un tale scenario gli iraniani potrebbero rispondere con la sospensione delle importazioni dagli Emirati e con la chiusura dello Stretto di Hormuz ai traffici commerciali, danneggiando così economicamente gli EAU e dando origine, probabilmente, ad una reazione a catena internazionale di vasta portata.
Nel frattempo, l’equilibrio così creatosi fa sì che la questione rimanga una delle dispute territoriali più inestricabili nell’area del Golfo. Allo stato attuale sembra improbabile che il contrasto tra i due Paesi sfoci in uno scontro militare. Tuttavia, in un’area instabile come quella vicino-orientale e per di più ricca di interessi strategici ed economici, non solo per i Paesi che ne fanno parte ma anche per le grandi potenze mondiali, il perdurare di un attrito potrebbe rivelarsi esplosivo in caso di eventi bellici collaterali e portare ulteriore instabilità in una delle arterie commerciali più importanti del mondo.
* Giovanni Andriolo è dottore in Relazioni internazionali e tutela dei diritti umani (Università degli studi di Torino)