Il XXI secolo è il secolo delle nuove sfide.
Le spinte verso un rimescolamento degli assetti geopolitici sono molteplici.
Talvolta misurano delle contrapposizioni o delle contraddizioni, tal’altra delle linee di tendenza abbastanza marcate e inquadrabili. Sicchè, non pare azzardato configurare il futuro del globo nei termini di un multipolarismo probabilmente già in essere ma ancora da sviscerarsi in maniera organica e costruttiva.
La tendenza unipolare recalcitra, anzi i think thank americani lasciano intendere che siamo in una fase di ridisegnamento del processo egemonico statunitense sovrapponibile a quello della globalizzazione, benché i due non coincidano esattamente, per quanto ad entrambi sia ascrivibile il ruolo indiscutibile degli Stati Uniti.
La fase in atto assume i caratteri di occidentalizzazione/contro -occidentalizzazione, con tutto il carico di effetti e sintomi che maturano a tutte le latitudini, tra global e local, tra guerre e insurrezioni, tra modernizzazione e “democratizzazione” (non per forza speculari, come pure volevasi far credere), sullo sfondo del ritorno galvanizzato degli Stati-nazione, seppur in un contesto mutante.
Sin qui si è idealizzato il tempo dello scontro della civiltà (Huntington), si è erroneamente creduto nella dimensione della “fine della storia”, per dirla con Fukuyama, non nel senso della fine degli accadimenti ma in quello di una marcia globale verso gli standard più o meno univoci di democrazia e mercato. Era la prospettiva dell’uomo unico, cioè moderno, dunque evoluto. Un messaggio omologante, totalitario nello spirito e persino nei suoi mezzi per affermarsi. Dovremmo chiederci cosa sarebbe un mondo con le sue identità ridotte a fossili, tanto quelle dei popoli che arricchiscono e diversificano l’umanità, quanto quelle degli uomini, cioè dell’Uomo nelle sue più variegate connotazioni, bisogni, emotività, sacralità.
Tant’è, popoli e uomini non volgono al crepuscolo.
Tra la dimensione unipolare e la dimensione multipolare, che la logica vuole votate giammai alla sintesi ma all’alternatività o allo scontro (di che tipo?), avvertiamo un vuoto: è quello dell’Europa.
All’inizio era il mito, sopravvissuto poi in forma iconografica nei giorni nostri: il mito della ninfa Europa rapita da Zeus tramutatosi in toro. Europa appare così, per la prima volta nell’VIII secolo a.C. negli esametri di Esiodo: ancora non è una regione, né un intero continente, ma una nobile figura mitologica. Come termine geografico, la rintracciamo per la prima volta in un inno omerico del VII-VI secolo a.C.
Il nucleo della coscienza europea nasce e si sviluppa in Grecia, nel “Mondo Antico” che ha per centro il Mediterraneo, il luogo di incontro tra Europa, Asia e Africa, precisando come, in realtà, l’Europa costituisca, in senso geografico, la penisola occidentale del continente asiatico. Dal mito in poi ha maturato una sua coscienza, dunque, sicuramente identitaria e spirituale, fino ad assumere contenuti politici seppure anche diversi. Un processo di autocoscienza culturale certo, così come un processo politico idealizzato e proseguito, a fasi alterne, in varie forme fino ai nostri giorni; non frutto di un progetto studiato, definito e applicato, bensì di convergenze storiche che hanno avuto una maggiore e decisiva continuità dal secondo dopoguerra in poi.
Oggi registriamo passaggi rilevanti in seno al nostro continente, come la trasformazione della Comunità Europea in Unione, l’allargamento ai Paesi prima appartenenti al blocco sovietico, l’introduzione della moneta unica, il delinearsi di una forma limitata di strategia di difesa comune. Rileviamo significativi dati oggettivi quali l’imponente vastità del suolo comunitario, il volume demografico e quello del PIL. Eppure a queste caratteristiche e a questi strumenti bisogna conferire il valore reale, soppesarlo cioè alla luce di quanto esprime l’Ue nello scenario internazionale. Sul terreno politico l’Europa segna il passo e molteplici sono le cause. La debolezza politica è inevitabilmente indice del vuoto geopolitico europeo, un vuoto che significa mancanza di un’autorevole e forte autocoscienza continentale nonché di una efficace e concreta azione unitaria in grado di incidere sui destini del pianeta. Dopo la lunga parabola storica dall’eurocentrismo alla debolezza attuale, l’Europa necessita di una direzione specifica che sia in grado di forgiarla come un autentico soggetto attivo al proprio interno e protagonista di ritorno nelle vicende del mondo. Incontestabilmente, da decenni i singoli Paesi europei – o un concerto di alcuni di loro- non manifestano fondamentali indirizzi di politica internazionale nè determinano eventi forieri di effetti nel lungo periodo.
All’Europa spetta, insomma, di ritrovare un proprio ruolo nella storia, con una consapevolezza però ancora da maturare pienamente. Dovrà trattarsi di una consapevolezza degli europei tutti (almeno nelle loro forze trainanti) di appartenere finalmente ad un soggetto comune attraverso cui realizzare un proprio sistema di rappresentanza, di gestione, di sviluppo, di giustizia, di pace. L’Europa ha bisogno di un modello politico, dunque, che tale non potrà essere se non ci sarà un’anima capace di incarnare le identità dei popoli europei, di riscoprire il terreno culturale comune, di dare una prospettiva al futuro tra tradizione e modernità.
L’uscita dalla settaria chiusura dei particolarismi nazionali non può, però, implicare un insensato tuffo in un’astratta dimensione mondialista dove il punto cardine sia il fattore mercatocentrico. La realtà e la visione di uno spazio europeo come entità di mercato tout court è pienamente speculare al fenomeno della globalizzazione in atto che valorizza l’oggettività a discapito delle soggettività politico-identitarie.
Si tratta, innanzitutto, di recuperare una dimensione e una sfida di civiltà per ridefinire le linee guida del proprio modo europeo di essere. E si tratta, poi, di innalzarsi, e questa volta come una figura unitaria, a protagonista parallelamente all’ascesa degli altri protagonisti globali, come Russia, Cina, India che spingono per un sistema multipolare.
Alla necessità di un più equo e bilanciato disegno degli equilibri internazionali, l’Europa non può non rispondere, perché un suo vero e rinnovato ritorno non potrà che essere anche un ritorno del principio e del valore della politica. Della politica intesa come suprema arte dell’uomo, animale sociale, per realizzare se stesso nell’insieme organico della comunità. Andare all’origini, alle radici, riscoprendo la dimensione dei greci. Rinnovare il messaggio dell’oracolo delfico: “conosci te stesso”.
La forma mentis moderna ha sviluppato l’idea della neutralità della politica, riducendola da arte a mera prassi gestionale, applicazione amministrativa e meccanica delle norme giuridiche, tecniche ed economiche. L’apparato burocratico di regolamentazione del modello Bruxelles e il predominio decisionale della Bce esprimono la prevalenza della prassi razionalista ed economicistica sull’arte della politica. Oggi sembra prevalere una tendenza alla neutralizzazione della politica attraverso la morale che sottende all’ideologia dei diritti dell’uomo, attraverso l’automatismo delle meccanica mercantilistica, attraverso il prodursi e riprodursi del diritto, come se le regole, per il solo fatto di nascere, possano vivere senza l’anima delle comunità che in esse dovrebbero identificarsi. Ecco perché la confisca delle sovranità nazionali non può racchiudersi in un modello superstatuale che ignora le rappresentanze intermedie delle comunità nazionali e sociali europee.
Di fronte alle grandi questioni poste dal sistema mondiale non bastano più le azioni singole di singoli Stati, ma si rende necessario un agire comune che riesca ad esprimere la vocazione continentale di un’Europa come spazio di civiltà, come potere autocentrato e capace di misurarsi con le spinte e le influenze esterne. Non può ridursi ad una “potenza civile”, come qualcuno addita a soluzione, bensì divenire una potenza geopolitica. L’Europa forte, l’Europa come potenza. Da qui, dunque, il passaggio necessario di andare oltre il giuridico, affinchè l’Europa possa finalmente essere il luogo privilegiato di una storia e di un destino, affinchè possa segnare scelte politiche e strategiche decisive facendo valere il potenziale insito nelle diverse risorse dei suoi popoli, nella sua forza economica, tecnologica e auspicabilmente militare.
Il diritto non si fonda da sé, ma è basato su di una sostanza storica, quella plurale dei popoli, su una dimensione culturale. Altrimenti la cessione delle sovranità nazionali costituirà solo la perdita degli spazi democratici. C’è bisogno di un progetto di potenza che non può costituirsi solo giuridicamente. Occorre un essenziale valore politico. Ciò dovrebbe implicare anche l’uscita dello spazio europeo dall’abusata identificazione con l’Occidente in senso lato. Il paradigma occidentalista, di fatti, sembra ridursi nella sostanza a diritti, “pace” e mercato senza valorizzare in maniera producente le specificità dei singoli popoli europei e le attitudini comuni.
Il senso della comunità, lo spirito dell’appartenenza, il principio della giustizia sociale soccombono alla logica dell’individualismo indistinto che ignora le radici e i legami profondi, dalla famiglia alla terra. Ai diritti dei singoli dovrebbero affiancarsi dei doveri, così come dovremmo riappropriarci dei “diritti dei popoli”, una dimensione molto più consona alle nostre tradizioni comunitarie e non individualistiche. Una dimensione che ci porrebbe in una posizione migliore per il dialogo con le altre realtà identitarie del pianeta.
Una strada tra idealismo e pragmatismo si può percorrere. L’Europa si trova ad un bivio storico tra subalternità e sovranità.
Le dinamiche della nostra epoca ci impongono di costituirci come un attore globale pienamente responsabile e autosufficiente che abbia una propria autorità decisionale.
Il proseguimento del processo di integrazione in senso identitario e politico deve condurci fuori dall’orbita atlantica, il che implicherebbe anche l’esclusione della Gran Bretagna, il principale responsabile di un’Europa oggi più mercantilistica e meno politica, come dimostra ulteriormente l’avventato processo di allargamento verso Est.
La nostra dimensione spaziale europea non è marittima ma continentale.
Riappropriandosi del suo ruolo continentale, l’Europa potrebbe fungere da perno per un nuovo ordine delle relazioni internazionali poggiante sul confronto di civiltà e non sulla corsa all’imposizione di un modello unico e prevaricatore. Con un ruolo geopolitico continentale, essa riscoprirebbe la sua dimensione mediterranea e di ponte verso l’Oriente.
Queste, del resto, sono le due fondamentali sfide e prospettive da coltivare.
Un nuovo ritorno da protagonista nel Mar Mediterraneo aprirebbe scenari capaci di imprimere svolte necessarie. Si tratta di un ritorno al “Vecchio Mondo”, alla culla di civiltà che si è arricchita dello straordinario contributo dei tanti popoli affacciati su quel mare comune, luogo di scontro certo, ma anche di incontro tra Europa, Asia e Africa.
La crisi di Suez del 1956 segnò, di fatto, l’uscita di scena degli europei dal Mediterraneo, svilendone una naturale propensione e determinandone l’impasse al cospetto dei due blocchi. Una pax mediterranea oggi sarebbe la chiave di volta per controbilanciare le spinte verso una pax anglosferica, foriera di crisi e scompensi che si ripercuotono in tutti i campi e a livello internazionale.
Un interesse concreto e valido al mare nostrum sarebbe non solo un ritorno alle radici, magari capace di riconsegnarci un’essenza spirituale smarrita, ma più pragmaticamente una strada privilegiata per risolvere la fondamentale questione energetica. L’approvvigionamento energetico è uno dei fattori geopolitici principali attuali e del futuro, e gli europei si ritrovano nella condizione di trovare un’efficace soluzione con i Paesi situati sull’altra sponda. Insomma, è in gioco la nostra prioritaria autosufficienza.
Sposare la dimensione mediterranea, troncando quella atlantica, per avviare la fine delle autocrazie “moderate” arabo-islamiche e l’abbandono dell’etnocentrismo religioso, la fine delle istanze truccate del neocolonialismo, delle missioni più o meno velate di civilizzazione eterodiretta, delle forme di scontro che sorgono da razzismo e intolleranza. L’Europa come forza di mediazione.
Fra il 1995 ed il 2004, la politica europea mediterranea si è sviluppata soprattutto attraverso il Partenariato Euro-Mediterraneo (Pem), che fu avviato dalla dichiarazione di Barcellona. Successivamente all’allargamento Ue del 2004, è accaduto che i Paesi rientranti nel Pem siano convogliati nella nuova Politica Europea di Vicinato (Pev), insieme a quelli del versante orientale rimasti fuori dall’Ue. In tal modo, l’azione comunitaria ha due direzioni: la Pev, che è inerente fondamentalmente alle questioni economiche, gestite dalla Commissione, e il Pem, a carattere collettivo, riguardante la sicurezza e le relazioni socio-culturali, di cui si occupano i governi. Si è configurata, però, una situazione che vede una sproporzionata rappresentanza dei membri Ue rispetto a quelli non Ue, nonché una serie di accordi di vario tipo non inquadrabili in maniera omogenea. I risultati, come evidenziano molti analisti, sono insufficienti. Di recente il Presidente francese sta tentando una nuova carta, avviando l’Unione per il Mediterraneo, la quale costituirebbe un vertice dei capi di Stato e di governo e mirerebbe allo sviluppo di specifici progetti nell’ambito dell’ambiente, della crescita economica e sociale e della sicurezza. Il profilo è quello già consolidato di iniziative regionali e collettive.
Tuttavia, il nodo rimane quello della mancanza di un fattivo approccio geopolitico di ampio raggio, che risente a sua volta della mancanza di una visione comune costruttiva. La linea sembrerebbe, nella più ampia ipotesi, essere quella della creazione di un’area di libero scambio e di qualche accordo diplomatico multilaterale, confermando l’incapacità di procedere verso una progettualità politica risolutiva delle grandi questioni che gravano, come appunto la già citata sicurezza comune, fermo restando l’evanescenza politica per la risoluzione dei conflitti e delle tensioni nel Levante.
Ci ritroviamo con un Mediterraneo frammentato e conflittuale. Anche qui si rivela la crisi dello Stato-nazione come strumento incapace di fronteggiare problemi sempre più transnazionali, come quello della scarsità delle risorse naturali, la ridistribuzione della ricchezza, lo squilibrio economico, i flussi migratori.
Un maturo grado di coscienza europea deve misurarsi con questo pluriverso di identità che non può ridursi ad unum, ma prosperare nelle sue diversità.
Il Mediterraneo è un mare di frontiera che non può sottrarsi al suo destino di dialogo interculturale e che non può soccombere al fondamentalismo o all’universalismo.
Del resto, esso non ha mai conosciuto un’unica ortodossia religiosa o una sola lingua. Basta ritornare al valore delle radici, delle origini, per cogliere la sua essenza politeista, la nobile dimensione della filosofia, della tragedia, della logica, del metodo scientifico, della matematica.
Il dialogo arabo-europeo dovrebbe essere una naturale predisposizione da coltivare sulle sponde mediterranee, mentre prevalgono azioni bilaterali e le iniziative costruttive sono soffocate dalle aggressive politiche israelo-americane, con un colpevole sostegno o colpevole immobilismo europeo. Per di più, l’approccio laico-modernista “all’occidentale” non è propedeutico alla sintesi ma soltanto all’imposizione; il paradigma occidentalista svilisce le peculiarità dei popoli arabi e rinfocola gli integralismi.
La logica della modernità vede la cultura arabo-islamica come una serie di vincoli e di ritardi e pretende di indicarle la dinamica tipica del mondo globalizzato, fondata sulla mobilità, sull’individualismo e sulla perdita dei legami tradizionali.
Quanto giova ai popoli l’aver sostenuto, noi europei, il consolidamento di regimi oligarchici, travestiti da democratici e moderati, che realizzano un business turistico come quello dei villaggi ignorando lo sviluppo delle comunità? Solo uscendo da tale forma mentis e dalla mera prassi affaristica, per di più di bottega nazionale (legittima e giustificata nel breve, ma quanto durevole nel lungo periodo?), sarà possibile costruire una politica che sia incontro tra le sponde di questo grande lago comune.
Si ritorna al punto: uscire dalla subalternità atlantica e agire finalmente come Europa.
In quanto nuova Europa che non gareggia sul piano di un aggressivo neocolonialismo e che produce un modello da imporre, ma guarda alle sponde nordafricana e del Vicino Oriente mirando alla completa riacquisizione della sovranità politico-economico-culturale, necessaria per un modello di sviluppo organico che ottemperi ai principi di giustizia.
E’ una sfida di civiltà.
La direttrice geopolitica mediterranea Sud-Est deve essere parallela a quella verso Nord-Est, cioè all’interno dello spazio eurasiatico. Anche questa è una dinamica semplicemente naturale di aggregazione continentale. Se l’Europa è, geograficamente, un’appendice dell’Eurasia, questa però è il suo formidabile spazio geopolitico.
Lo spazio eurasiatico è fondamentale in un’ottica di potenza.
Da ovest a Est corre il sogno della Grande Europa. Dalla sponda atlantica di Brest nella Bretagna francese a quella sul Pacifico di Vladivostok, lo spazio dove risiedono le principali ricchezze e la maggior parte della popolazione mondiali. Il territorio continentale è così naturale fusione di Europa e Asia, giacchè gli Urali, barriera morfologica, mai hanno rappresentato un ostacolo all’incontro politico e culturale.
Si svelano, così, le antitesi di fondo con le potenze atlantiche.
Gli Stati Uniti sono una potenza litoranea e marittima in successione alla Gran Bretagna, l’Europa sorge sulla massa terrestre. I connotati geografici si legano a quelli politici. L’egemonia reticolare americana si è forgiata con la pratica commerciale mercantilistica in sovra-ordine rispetto alla considerazione delle relazioni e attività umane, con il ricorso allo strumento bellico per colpire gli scambi e la tenuta economica dei suoi rivali, utilizzando sanzioni e blocchi navali.
Per le nazioni europee, invece, le guerre hanno avuto un carattere interstatale per fini maggiormente politici e territoriali. L’ordine socio-economico di derivazione anglosassone, più radicalizzato nella versione americana, è imperniato sull’individualismo e sul profitto come valore anche spirituale, mentre l’humus europeo risiede nelle tradizioni umanistiche e comunitarie.
Il percorso geopolitico da battere conduce a Mosca.
E’ fondamentale elaborare un’azione strategica di concerto con la Russia. Certo, non è plausibile l’entrata di quest’ultima nell’Ue (quantomeno a breve), ma realizzare una cooperazione strategica su più livelli, ben oltre quella partita nel 1997, aprirebbe scenari nuovi.
Determinerebbe la formazione di un polo potentissimo che indurrebbe ad un ripiegamento quello americano e darebbe la spinta decisiva nella direzione di un più proporzionato policentrismo; consentirebbe di pesare sull’intero scacchiere asiatico; sanerebbe le distorsioni dei meccanismi della globalizzazione e rilancerebbe un nuovo modello economico; porterebbe ad una piattaforma comune di sicurezza e militare, con la costituzione di un esercito pienamente autonomo; porterebbe ad un incontro tra le diverse esigenze, energetiche, tecnologiche, infrastrutturali nell’ottica di uno scambio e arricchimento comune.
L’esperienza dell’asse Parigi-Berlino-Mosca è modulata proprio su questa dimensione eurasiatica. E’ lo strumento per girare a nostro vantaggio le tesi di Halford Mackinder, per scongiurare lo scenario avverso idealizzato da Zbigniew Brzezinski nel celebre e attualissimo saggio “La Grande Scacchiera”.
E’ la più significativa e affascinante avvenuta negli ultimi decenni. Non nasce dal nulla, ma gode di un proprio retroterra storico-politico-culturale formatosi nei secoli. I rapporti a più riprese e vario titolo, di contro alle fasi di rottura e di scontro, tra Francia, Germania e Russia sono risultati importanti per gli equilibri e gli sviluppi del continente.
Ci sono già state significative occasioni mancate che non gioverebbe all’Europa ripetere. Sul finire dell’800, i Ministri degli Esteri Hanotaux, Witte e von Siemens -che sottolineavano il valore delle infrastrutture civili, come ad esempio il progetto delle linee ferroviarie Parigi-Vladivostok e Berlino-Baghdad-, auspicavano una coalizione politico-economica concorrenziale rispetto a quella dei Paesi anglosassoni e che fosse in grado di gettare le basi per una costruzione comune per la pace e la stabilità. Un’occasione mancata cui, di lì a poco, sarebbe seguito il primo conflitto mondiale.
Di grande valenza fu il costituirsi della cooperazione strategica franco-tedesca a cavallo tra gli anni ’50 e ’60, con le figure del generale De Gaulle e del cancelliere Adenauer. Il Trattato dell’Eliseo che ne seguì si ritrovò poi depotenziato in termini di autonomia per l’aggiunta di un preambolo, redatto da Jean Monnet (che aveva una concezione della struttura europea diversa da quella del Generale), che lo subordinava agli obblighi atlantici della Germania (che aveva aderito alla forza multilaterale promossa da Kennedy) e preannunciava di fatto l’entrata della Gran Bretagna nel Mercato Comune, osteggiata da De Gaulle che considerava gli inglesi come il cavallo di Troia degli USA in Europa.
Il pensiero del Generale viveva di un brillante europeismo che scavalcava le angustie e le chiusure preconcette della logica dei due blocchi già nel 1949: “Io dico che occorre istituire l’Europa sulla base di un accordo tra francesi e tedeschi… Costituita su queste basi, … allora, potremo guardare alla Russia. Si potrà provare, una volta per tutte, a costruire l’Europa tutta intera, insieme alla Russia, pur dovendo considerare un suo cambiamento di regime. Ecco il programma dei veri europei. Ecco il mio programma”.
Una svolta fu il riavvicinamento russo-alemanno con l’apertura negli anni ’70 dell’Ostpolitik da parte della Germania Federale, nella figura in particolare di Willi Brandt. Gli effetti di questa fase furono tra le premesse dell’unificazione tedesca e proseguono tuttora.
La guerra degli USA contro l’Iraq, costituendo un momento critico, è stata l’occasione per uscire allo scoperto e far pesare le posizioni assunte, ma oggi l’asse Parigi-Berlino-Mosca, pur cambiando taluni protagonisti, mantiene un suo profilo anche se più dimesso e contenuto sul piano diplomatico, più vivo ed efficace su quello della strategia economica. La certezza è che rotture profonde non potranno più esserci. Dal nocciolo duro franco-tedesco così come dalla partnership russo-tedesca, gli europei hanno solo da guadagnarci. Da quest’asse ed intorno ad essa vanno consolidati i progetti europei dotati di visione e pragmatismo. Si pensi al ruolo straordinario che spetterebbe all’Italia assumersi, come ponte europeo nel Mediterraneo.
Ovviamente, la tendenza dovrebbe essere quella di integrare gli accordi bilaterali in un più ampio processo di cooperazione comune.
Alcuni analisti, diplomatici, industriali, intellettuali sostengono come sia di totale interesse dell’Unione, sulla base di un’alleanza con la Russia, l’allestimento qui di un polo tecnologico, la realizzazione dei grandi corridoi di trasporto (come quello Parigi-Berlino-Varsavia-Minsk-Mosca), uno scambio tecnologia-petrolio, un accordo borsistico tra Euronext, Francoforte e la borsa di Mosca; indurre i russi a preferire l’euro come moneta di riferimento per le esportazioni e di riserva per la loro banca centrale; costituire una banca europea continentale di sostegno all’industria.
L’Europa non può prescindere, innanzitutto, dal pilastro carolingio, un’entità politico-demografica simile a quella russa e inoltre propedeutica al ponte con Mosca.
La Francia si impone sul versante occidentale europeo, è bagnata dalle acque atlantiche e da quelle mediterranee, è l’unico Paese ad appartenere al Nord e al Sud mediterraneo del continente.
La Germania è il perno continentale, il crocevia Ovest-Est e Nord-Sud.
Ambedue i Paesi insieme costituiscono l’incontro della dimensione mediterranea con quella renana nonché il motore obbligatorio politico-economico europeo, catalizzando per primi il Benelux e l’Italia, già fondatori della Comunità Europea.
Gli europei necessitano di una strategia operativa che sia tanto un prodotto univoco dell’Europa come soggetto singolo attivo, quanto un coordinamento e una messa in sintonia delle singole azioni dei Paesi che la compongono.
Il Trattato di Maastricht è l’unico produttivo collante dei Paesi dell’Ue, ma è la misura di un’area di libero scambio a carattere anglosassone. L’alternativa è un’Europa continentale a forte contenuto politico. Un po’ come sovvertire l’esito di Waterloo, verrebbe da dire.
La sovranità si misura dalla piena, democratica, effettiva ed efficace operatività del Parlamento comunitario (se un ruolo esso deve avere), da un percorso autonomo dell’euro rispetto alle politiche del dollaro, dal mantenimento e dalla fioritura dei settori strategici nazionali nell’energia, nelle telecomunicazioni, nei trasporti, nelle tecnologie, nelle strutture spaziali; dalla nascita di un vero esercito libero dall’ormai mortificante vincolo della NATO; dall’edificazione di un modello di comunità partecipata in grado di assicurare prosperità e giustizia sociale; dal controllo delle istituzioni politiche sulla Bce, che non può monodirigere le linee economiche.
E’ inammissibile che la cosiddetta “Nuova Europa” dei Paesi usciti dal Patto di Varsavia soggiaccia alle manovre atlantiche di scardinamento del sistema europeo e fungano da testa di ponte contro la Russia. Quanto è responsabile, se non in maniera grave, il lassismo delle istituzioni comunitarie relativamente alla influenza di Washington su questi Paesi membri, come dimostrano l’utilizzo dell’arma finanziaria e le mire egemoniche e di controllo legate al progetto dello “scudo antimissile”?
Il Trattato di Lisbona è un esercizio giuridico che burocratizza i poteri elitari costituiti e non ridisegna una piattaforma politica. Ma avere una visione politica è avere sovranità.
L’indipendenza per l’Europa è vitale. Passa per la riappropriazione di basilari elementi di sovranità, fuori e dentro l’Unione Europea, dalle acque del mare nostrum alle steppe eurasiatiche.
L’Europa o sarà potenza o non sarà.
* Alfredo Musto è dottore in Scienze politiche e relazioni internazionali (Università “La Sapienza” di Roma)