Da qualche anno a questa parte vi è un pericoloso fenomeno che sta crescendo su scala globale e che affligge tra le altre regioni del mondo anche le coste, occidentali e orientali, dell’Africa – Continente con il quale il fenomeno in questione risulta strettamente legato. Sto parlando della pirateria, una realtà dalle antichissime origini che da sempre ha a che fare con i mari ma che oggi trova le sue cause altrove: secondo il docente di Diritto della Navigazione e dei Trasporti Nicolò Carnimeo infatti, “la pirateria moderna è un fenomeno terrestre (nasce dall’instabilità dei Paesi di origine) e non marittimo e, quindi, andrebbe combattuta (o risolta) a terra e non in mare”[1]. Del resto, la pirateria delle coste orientali africane è anche figlia di una Somalia in preda al caos più totale da quasi vent’anni. Le coste della Somalia ammontano a più di duemila miglia marine e assieme a quelle dell’Africa occidentale sono uno scenario favorevole per il manifestarsi dei continui attacchi dei bucanieri africani.
In termini giuridici, il concetto di pirateria farebbe riferimento a quelle azioni messe in atto in alto mare, al di fuori della giurisdizione di qualsiasi Stato: le azioni criminali attuate nell’ambito di acque territoriali sarebbero invece classificabili come rapine armate nei mari.
In Somalia, giovani che sanno di poter perdere la vita da un momento all’altro (non mi concentrerò qui sulla tesissima situazione somala a partire dagli anni novanta sino ad oggi), sentono di non avere niente da perdere e anzi, molto da guadagnare nel praticare azioni di rapina nei confronti di navi mercantili. Uno stato di povertà cronica, unito alla sensazione diffusa tra la popolazione somala che le condizioni di vita non potranno mai migliorare, sono fattori sufficientemente stimolanti per divenire parte del sempre più vasto “esercito” dei predoni di mare. Se a livello strettamente sociale questo è il terreno fertile per l’alimentarsi del fenomeno, a un livello politico e istituzionale i saccheggiatori dei mari africani possono beneficiare, nel caso della Somalia, di un contesto territoriale privo di un’effettiva forma di Governo stabile; una tale cancrena istituzionale è contagiosa per la stessa economia interna, terreno fertile per un mercato che favorisca un facile piazzamento del bottino dei moderni pirati. In altre parole, vi è una perfetta osmosi e interdipendenza tra pirateria e Stati senza Governo, tra criminalità marittima e instabilità istituzionale: non dimentichiamo però le stesse organizzazioni terroristiche.
Attualmente, gli atti di pirateria si verificano non soltanto al largo delle coste della Somalia (sappiamo infatti come il Corno d’Africa sia oramai divenuto terra privilegiata per l’originarsi di tali azioni), bensì anche lungo le coste comprese tra Arabia Saudita e Pakistan; a largo dell’Africa occidentale; nell’immenso e complesso scenario marittimo del Sudest asiatico e persino nei Caraibi e lungo le coste pacifiche dell’America latina. Al giorno d’oggi, il Golfo di Aden è la parte del mondo maggiormente affetta da attacchi pirateschi, seguita dalle coste della Nigeria e da quelle dell’Indonesia. In definitiva – lo sottolineo nuovamente –sono i mari africani che soffrono particolarmente del problema della pirateria. Le coste comprese tra Yemen, Somalia, Gibuti ed Eritrea offrono inoltre una conformazione molto favorevole agli attacchi dei pirati proprio perché costituiscono un insidioso stretto – in inglese si adopera il termine tecnico chokepoint, sorta di collo di bottiglia che rallenta la navigazione e che ad esempio, in un eventuale contesto bellico, favorirebbe il prevalere di una delle forze coinvolte.
Le frontiere marittime europee (o meglio il cosiddetto “Mediterraneo allargato” che si estende ben al di là di Gibilterra e della Grecia, dilatandosi dalle coste senegalesi fino al Corno d’Africa) è sempre più al centro della PESC, la Politica Estera e di Sicurezza Comune dell’Unione Europea. Sia la Nato che l’Ue si sono mosse in termini militari per far fronte a un fenomeno criminale in preoccupante crescita. I raid dei moderni bucanieri danneggiano il commercio marittimo globale ed europeo: le stesse tratte via mare si fanno più costose anche in termini di protezione perché la pirateria non ha come conseguenza il solo costo dei riscatti da pagare per liberare gli eventuali ostaggi, bensì anche gli esborsi derivanti dalla diversione delle rotte marittime commerciali e dagli accresciuti costi assicurativi. Allo stesso tempo, questo tipo di attività criminale è portatrice di ingenti capitali che spesso i signori della guerra reinvestono in proprietà immobiliari in Kenya e in Etiopia.
Il contesto somalo fa sì che i network della pirateria sviluppino solidi legami con il terrorismo fondamentalista yemenita e della Somalia stessa, costituendo in molti casi delle vere e proprie organizzazioni terroristiche dedite all’assalto delle imbarcazioni mercantili in alto mare e possiamo immaginare quanto sia fatale l’incontro tra interessi di organizzazioni criminali.
Vorrei qui ricordare come la posizione geografica e un’economia fortemente dipendente dalle rotte commerciali via mare, facciano dell’Ue una potenza marittima di primo piano a livello globale e gli interessi di difesa commerciale, economica ed energetica (in poche parole, gli interessi geopolitici) dell’Unione si estendono almeno fino all’Oceano Indiano.
Al fine di contrastare le azioni di pirateria, sono già decine le imbarcazioni impiegate nella parte occidentale dell’Oceano Indiano, tra le quali quelle americane e il quadro Nato in tal senso è da definire meglio: nonostante tutto, non saremmo di fronte ad una sufficiente risposta militare o più in generale di difesa e deterrenza nei confronti del pericolo costituito dai pirati.
Il 22 agosto 2008 la coalizione navale multinazionale denominata Combined Task Force 150 (CTF 150), costituita in funzione antiterroristica dopo l’11 settembre per pattugliare i mari dell’Arabia Saudita e le coste africane, ha creato nel Golfo di Aden il Maritime Safety Protection Area (MSPA), corridoio ampio otto miglia nautiche e lungo cinquecentomila. L’Europa non è stata ferma a guardare e il 13 dicembre dello stesso anno le forze navali NAVFOR hanno cominciato ad essere impegnate nella succitata Operazione Atalanta al largo delle coste somale con lo scopo ufficiale di proteggere gli approvvigionamenti forniti dalle imbarcazioni del Programma Alimentare Mondiale delle Nazioni Unite e di reprimere le azioni di pirateria che troppo spesso avevano avuto come vittime privilegiate proprio i rifornimenti umanitari inviati dall’Onu. In passato sappiamo come siano state moltissime le operazioni inquadrabili nel contesto della Politica Estera e di Sicurezza Ue che abbiano servito gli interessi europei solo indirettamente. Non così nel caso dell’Operazione Atalanta, prima operazione navale dell’Unione a battere bandiera Ue allo scopo di difendere in modo diretto (e non più indiretto) gli interessi degli Stati membri dell’Unione.
La reazione di Parigi al fenomeno della pirateria è stata pronta e, dopo un attacco ad un’imbarcazione battente bandiera francese nell’aprile 2008, vi fu un poderoso raid contro i responsabili dell’azione, evento al quale seguì tra l’altro la forte eco del fenomeno sulle televisioni di tutto il mondo; la Risoluzione del Consiglio Onu 1816 fu ampiamente sollecitata dalla stessa Francia: il principale organo decisionale dell’Onu autorizzava così azioni contro la pirateria lungo le coste della Somalia, promovendo la creazione di una forza navale internazionale.
Allo stesso modo, uno dei più impressionanti cambiamenti di rotta di questo secolo nella sicurezza e nella politica di difesa della Germania è stata la partecipazione di Berlino ad operazioni navali distanti dalle acque territoriali tedesche, già impiegate in altre imprese extraterritoriali.
Lo stesso impegno degli Stati Uniti è alto e intenso in termini militari e si allarga fino al vicino Yemen, avendo come base di partenza per le operazioni il Bahrein.
Non ci è difficile insomma comprendere quanto strategiche siano le acque comprese tra il Canale di Suez e il Golfo di Aden, dove transitano i traffici commerciali di tutto il pianeta e dove i Paesi coinvolti dal punto di vista degli interessi economici e commerciali appartengono a diverse sfere geopolitiche, da Hong Kong agli Stati Uniti, passando per Ucraina e Cina – quest’ultima con problemi legati alla pirateria da fronteggiare anche nelle acque circostanti le proprie coste.
Ancora, sembrerebbe che la pirateria sia persino rischiosa per l’ecosistema dei mari: i bucanieri difatti colpiscono spesso con i colpi di pesanti armi da fuoco le cisterne di greggio che capitano nelle loro grinfie.
Per non parlare poi del pericolo che gli attacchi costituiscono per gli aiuti umanitari delle Nazioni Unite, mancando i quali la Somalia andrebbe incontro al disastro umanitario.
Inoltre, non mi stancherò mai di dire che la pirateria nel Corno d’Africa costituisce una minaccia in termini di sicurezza degli approvvigionamenti energetici verso l’Europa. Da parte loro, i Paesi occidentali hanno compiuto come si è visto molti passi in avanti per garantire maggiore sicurezza al transito dei beni destinati ai propri mercati, ivi compreso il trasporto di petrolio.
Grande attenzione dovrà essere prestata da Europa e Usa anche ai problemi interni alla Somalia dove l’ala fondamentalista islamista, che già ha imposto la sharia nel Paese, si contrappone alle bande dei pirati. E’ pur vero come la stessa presenza di consolidate formazioni fondamentaliste nel già tormentato territorio somalo non potrebbe necessariamente garantire dei proficui rapporti internazionali di Mogadiscio, visto e considerato anche che il vicino Yemen è afflitto da problemi di terrorismo e che in Sudan un governo parimenti fondamentalista e dai legami internazionali ambigui potrebbe fomentare eventuali iniziative antioccidentali lungo il Corno d’Africa: la Somalia, insomma, si vedrebbe stretta in una pericolosa morsa, da Est e da Ovest.
Non dobbiamo trascurare affatto le continue azioni dei dirottatori nei mari africani proprio in ragione del fatto che tale fenomeno è veicolo di fenomeni criminali, finanziari e non, di vasta portata e ha determinato – è proprio il caso di dirlo – un cambio di rotta della geopolitica delle principali potenze occidentali e, in particolare, dell’intera Unione Europea.
* Alfonso Arpaia è dottorando in Lingue moderne (Middlebury College)
Le opinioni espresse nell’articolo sono dell’Autore e potrebbero non coincidere con quelle delle redazione di “Eurasia”