Con questo titolo, il comunista Antonio Gramsci (fondatore del Pci), il 15 maggio 1921, pubblicava sul proprio quotidiano, “L’Ordine Nuovo”, una relazione inviata da Paul Louis Courier alle Camere francesi nel periodo immediatamente successivo alla Restaurazione borbonica in Francia del 1815, ed in cui descriveva lo spirito di ingiustizia secondo il quale agivano gli organi e i funzionari dello Stato francese, mentre “lo Stato moriva”. Una rievocazione fatta da Gramsci, con una similitudine, di un modo di intendere i fenomeni della violenza fascista in corso, nel mentre venivano introdotte modificazioni nella direzione politica del governo Giolitti, incapace di far fronte ai nuovi grandi eventi che stavano minando lo Stato parlamentare, quale espressione ultima delle classi dominanti, così come si venne configurando fino ai primi anni Venti del secolo scorso.
Gramsci faceva scaturire la crisi dalla perdita della forza dello Stato, con il fascismo montante, inteso come effetto “del corrompersi dei poteri statali “. Una interpretazione sul fascismo che tende a collegarsi alla natura dello Stato, come la forma del potere più congruo per le classi dominanti, che in particolari momenti della loro esistenza è rivolta alla conservazione dell’ordine esistente, così come si evince in uno degli ultimi discorsi del parlamentare Gramsci, quando afferma:
“Ogni regime di governo è valido in quanto esiste, è diffuso ed è rispettato un costume sociale conforme ad esso, che ne costituisce quasi la premessa e la origine prima. Il signore di Montesquieu, il quale per primo enunciò questa semplice verità dandole il valore di una scoperta, aggiungeva, come esempio, che i regni erano condannati a cadere quando si spegneva il sentimento dell’onore, fonte del rispetto e della devozione ai re, e che scomparendo la virtù, sono destinate a morire le repubbliche. Possiamo aggiungere che la scomparsa della libertà e della giustizia segnano la fine dei regimi rappresentativi”.
Un criterio di giudizio secondo lo stesso Gramsci applicabile al partito socialista: nel <sentimento dell’onore>, proprio di un partito della classe operaia in cui risiede il <contenuto morale> di questa associazione; allorché questo sentimento comincia ad essere sistematicamente violato ha inizio il suo disfacimento interno trascinando con se la natura di uno Stato: < Né uno Stato, né un partito può mantenersi e governare senza principi, senza l’ossequio ai sentimenti dominanti della sua compagine sociale> (cfr. “L’Ordine Nuovo” 1921-22).
E’ su quest’ultimo aspetto del venir meno della forza coesiva sociale dello Stato, che si innerva, con più efficacia, la categoria interpretativa di Gramsci che richiama più direttamente il filone della scienza politica italiana, dal Machiavelli in poi, su una linea più aderente alle radici storiche della“Forza di uno Stato” ( 1919, “Ordine Nuovo”). Un tipo di interpretazione, ripresa successivamente, con una certa efficacia nelle pagine delle “Note sul Machiavelli, sulla politica e sullo Stato moderno” dei “Quaderni del Carcere” (1929-35):
“Se la crisi di un governo parlamentare consiste essenzialmente nella <impossibilità da parte del governo di ottenere pacificamente il consenso dei governati>, lo Stato (borghese) scopre una seconda linea di resistenza: la macchina amministrativa dei suoi funzionari, omogeneamente diffusa in tutto il paese, può permettere di sopravvivere alla sua crisi politica, in certe situazioni, ad una determinata formazione statale”.
La teoria gramsciana sulla genesi del fascismo procede in parallelo al disfacimento dello Stato liberale, e come riflesso di questo, al venir meno della struttura di comando delle gerarchie burocratiche dello Stato: “ una sorta di sinonimia tra classe media e piccola borghesia che, espunta dal processo di produzione e privata da ogni specifica funzione economica, fornisce il personale politico-burocratico e politico di uno Stato capitalistico che, per la debolezza dell’attività economica che lo sorregge, non è riuscito ad esprimere un proprio quadro dirigente ”( cfr,Leonardo Paggi, “Antonio Gramsci e il Moderno Principe”, Editori Riuniti, 1970)
Paradossalmente la storia si ripete, anche se non nello stesso modo, con figuranti diversi che, per trasposizione storica, assumono gli stessi ruoli sociali del passato: i dipendenti pubblici di oggi, il cosiddetto ceto medio, cresciuti in modo abnorme ed improduttivo, per la debolezza dell’attività economica (privata e pubblica) che la sorregge, sono divenuti, a tutt’oggi, una concrescenza parassitaria, come effetto sociale della Grande-Finanza e Industria-Decotta, “GF&ID;” e/o, a sistema politico rovesciato, i fascisti di ieri sono stati sostituiti, non solo metaforicamente, dai sfascisti-antifascisti dei sinistri odierni: un riflesso di un gioco di specchi della reazionarietà sociale dei cosiddetti ceti medi nell’occupare tutti gli spazi politici della macchina amministrativa dello Stato post-fascista e in modo sempre più espansivo, dall’inizio del Compromesso storico del Pci-Dc degli anni Settanta.(1)
E su quest’ultimo aspetto fondamentale, al fine di un richiamo ad una più raffinata comprensione storica, che emerge con forza la grande lezione politica di Gramsci; anzitutto, nel suo stile di ricerca, perseguita con pervicacia, in ogni dove, di “verità effettuale” sedimentata da una spessa coltre ideologica, di cui soltanto il partito è in grado di (di)svelare “ in un processo di formazione di una determinata volontà collettiva, atomizzata e dispersa, (ri)volta ad un fine politico, in/tra il rapporto tra dominanti e dominati; un’idea di partito che richiama il “Principe”(“De Principatibus”) del Macchiavelli,” in una sorta di libro <vivente>, in cui si fondono nella forma drammatica del <mito>”, l’ideologia e la scienza politica.
Il moderno principe evocato da Gramsci non è una persona concreta , ma un partito politico: “ la prima cellula in cui si riassumono dei germi di volontà collettiva che tendono a divenire universali e totali”; un punto decisivo della ricerca gramsciana, che riguarda, più direttamente, il formarsi della “volontà collettiva” partendo da un’analisi storica dei tentativi falliti a partire dalla dissoluzione della borghesia comunale italiana. Per gli altri paesi europei, contrariamente a quello italiano, gli stati moderni si sono potuto formare “sull’esistenza di gruppi sociali urbani convenientemente sviluppati nel campo della produzione industriale e che abbiano raggiunto un determinato livello di cultura storico politica”: una forza statale creata da una volontà collettiva nazional-popolare dei giacobini nella Rivoluzione francese ed a cui intese contrapporsi con ogni sforzo tutte le classi tradizionali europee, “per mantenere il potere economico-corporativo in un sistema internazionale in equilibrio passivo”.
L’analisi del partito si estende oltre il concetto di organizzazione intesa come volontà collettiva, per arrivare alla forza dello Stato e financo del suo contrario, “nella boria del partito”. Una osservazione di Gramsci che sembra spingersi oltre l’orizzonte nazionale, e temporale, dell’idea di partito, in grado di cogliere i risvolti di una interdipendenza di uno stato-nazione; e poter scindere da qui, un moto proprio da quello apparente. E’ su questa prospettiva, che l’analisi gramsciana si staglia con una certo acume, quando afferma in particolare che la “ boria del partito è peggiore della boria delle nazioni.. perché una nazione non può non esistere e nel fatto che esiste è sempre possibile trovare che l’esistenza è piena di destino e di significato…Invece un partito può non esistere per forza propria. Non occorre mai dimenticare che nella lotta fra le nazioni ognuna di esse ha interesse che l’altra sia indebolita dalle lotte interne e che i partiti sono appunto gli elementi delle lotte interne. Per i partiti dunque, è sempre possibile la domanda se esistano per forza propria, come propria necessità, o esistano invece solo per interesse altrui.. ”
Sembra che Gramsci sappia cogliere un passaggio fondamentale di una idea di stato, la cui assenza d’identità nazionale può risultare esiziale alla costruzione di una piena autonomia politica di uno Stato-nazione. Del resto, dal dopoguerra ad oggi, si è ripetuto l’intreccio storico del passato nel modo perverso di una quinta colonna al servizio di uno stato dominante (vedi Usa), che ha contribuito a sviluppare nella storia del nostro paese un processo politico, del tutto peculiare rispetto al resto dell’Europa; ad esclusione della parentesi storica del tragico Ventennio fascista, dove si pose con forza l’interruzione dei partiti, una domanda può diventare d’obbligo: si deve ripetere necessariamente un percorso dittatoriale simile al fascismo per ottenere un’autonomia politica dello Stato-nazione, oppure trasformare la dominanza Usa in una sempre maggiore “boria” dei partiti legati al peggior capitalismo d’importazione, mai avuto nella storia del nostro paese?
Gianni Duchini, aprile ‘10
(1) Un aspetto quest’ultimo da approfondire in sede storica sul tipo di capitalismo che venne a delinearsi e che, in una prima approssimazione, assunse negli anni Settanta le caratteristiche di un Capitalismo Manageriale: un semplice adeguamento ad un processo già in atto dalla metà degli anni Sessanta. In quel periodo troppi episodi vennero a concatenarsi, e a delineare una certa inversione di tendenza del capitalismo italiano. Le morti anzitutto di Mattei (1963), di Togliatti(1964); “il rumor di sciabole”, definizione data nel ‘64 da Pietro Nenni, con lo scandalo del “Piano Solo” ( tentativo, si diceva, di un colpo di stato del generale De Lorenzo) e comunque solo rumori di fondo, mai venuti alla luce o provati; nello stesso periodo, il premier Fanfani contribuisce alla soluzione dei missili russi a Cuba, proponendo agli Usa, come contropartita per l’Urss, la dipartita dei missili sovietici da Cuba in cambio dell’abbandono delle basi missilistiche americane in Puglia. Una mediazione fanfaniana, dall’interno di un paese di frontiera, quale l’Italia, entro un modo bipolare, su un difficile crinale degli accordi internazionali di Yalta, che portò progressivamente ad una minore “equidistanza del Pci” nei confronti degli Usa. E su quest’ultimo aspetto, un brevissimo richiamo ad un mio precedente articolo (“L’Iri dissoluzione di un sistema industriale”, apparso nel sito Ripensaremarx del 2008,) dove in una ricostruzione storica di un ex dirigente dell’Iri (Carlo Troilo, “I Venti anni che sconvolsero l’Iri”) scrisse come dal 1964 in poi, all’interno dell’Iri si respirò improvvisamente un’aria diversa, con un improvvisa inversione di rotta: si decise di cambiare i manager che avevano fin ad allora guidato l’Iri di notevoli competenze tecniche-manageriali, con manager finanziari. Un chiaro segnale di un irreversibile inizio di annacquamento della competitività dell’Iri, che ebbe, come conseguenza, una espansione in modo abnorme della spesa pubblica, con il suo effetto di trascinamento in un aumento di “pubblico impiego”; cresciuto improvvisamente e con una inusitata dabbenaggine; una sorta di piena occupazione, propagandata dalla sinistra, che darà tanta fortuna elettorale al Pci e renderà i sindacati sempre più un appendice istituzionale (un carrozzone parassitario-clientelare), con l’ovvio effetto di una minor competizione dell’intero sistema industriale dell’Italia; un quadro di un intero periodo non ancora riportato alla luce di una più approfondita ricerca storica.