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Volontà, immaginazione, senso comune: ristrutturare l’alleanza nippo-statunitense

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Fonte: “The Asia Pacific Journal” (tramite “JapanFocus”), 11/03/10

Nella foto a fianco: le principali basi militari statunitensi in Giappone


In un dibattito sulla Cina di inizio del ventesimo secolo, lo scrittore Lu Xun lamentò di come i cinesi, totalmente assuefatti al loro status coloniale, erano diventati “facce da schiavi”. Faccia da schiavo è l’atteggiamento di una persona abituata ad essere perseguitata e che vive adulando servilmente i potenti. Essa è l’espressione vuota di coloro che hanno perso il coraggio di pensare in proprio sulla condizione in cui si trovano, di quelli che non determinano il proprio destino. Questa è la “faccia da schiavo”.

Monitorando i servizi dei media sulla questione del trasferimento della base di Futenma a partire dall’autunno del 2009, mi resi conto che le espressioni di facce da schiavi sono diventate una caratteristica permanente degli intellettuali giapponesi, compresi i media. L’alleanza militare del Giappone con gli Stati Uniti è diventata rigida come un postulato inalterabile, e l’indolenza intellettuale di quelli che rifiutano totalmente qualsiasi proposta di modificare l’alleanza è semplicemente sconcertante.

Tornare al senso comune. Questo è ciò che è richiesto ai giapponesi, tornare al senso comune della comunità internazionale e ripristinare la consapevolezza che è innaturale per forze militari straniere essere stanziate per un lungo periodo di tempo in una nazione indipendente. Una nazione che non ha la volontà di trascendere i sofismi e lo stretto interesse personale e affrontare direttamente questo problema non può essere chiamata una nazione indipendente. Lasciatemi ancora una volta indicare i fatti che dobbiamo affrontare.

1) Nel 65° anno dalla fine della guerra del Pacifico e 20 anni dopo la fine della guerra fredda, ci sono circa 40.000 soldati statunitensi (e circa 50.000 civili e personale dipendente) di stanza in Giappone su basi USA che occupano approssimativamente 1.010 chilometri quadrati di terreno (1,6 volte l’area della città di Tokyo).

2) Delle prime cinque basi estere su larga scala che gli Stati Uniti mantengono in tutto il mondo, quattro sono in Giappone (la base navale di Yokosuka, e le basi aeree di Kadena, Misawa e Yokota).

3) Dal momento che vige un accordo che rende l’intero territorio del Giappone utilizzabile per le basi, e le decisioni su quali zone fornire sono prese dal Comitato congiunto dei rappresentanti dei governi Usa e giapponese (art. 2 dello Status of Forces Agreement [SOFA]), le basi possono essere posizionate ovunque in Giappone, senza l’approvazione della Dieta giapponese. Vi è una concentrazione di basi Usa in prossimità della capitale della nazione, Tokyo, che è senza pari in tutto il mondo (la base aerea di Yokota, la base navale di Yokosuka, la base dell’esercito a Zama e la stazione aero-navale di Atsugi, tra gli altri).

4) Il 70 per cento dei costi di stazionamento delle forze Usa in Giappone sono a carico del paese ospitante, una situazione che non esiste in nessun’altra parte del mondo.

5) Lo status delle forze americane in Giappone sotto il SOFA è stato riportato dall’accordo di amministrazione che ha governato le basi durante l’occupazione americana, e non è solo la sovranità giapponese ad essere ceduta sotto l’accordo, ma il Giappone ha dovuto sostenere anche le spese correlate alle basi che non sono specificate nel SOFA.


Riscoperte fatte in un viaggio negli Stati Uniti all’inizio del dicembre 2009

Ho visitato New York e Washington durante la prima settimana di dicembre. Da quando sono tornato in Giappone nel 1997 dopo aver lavorato negli Stati Uniti per più di 10 anni, ho fatto quattro viaggi all’anno per condurre “osservazioni da un punto di riferimento”. Lo scopo del viaggio era quello di condividere opinioni con specialisti di cooperazione industriale nippo-americana nel campo ambientale e dell’energia, circa nove mesi dopo che l’amministrazione Obama ha lanciato il “Green New Deal”; e sulle tecnologie di informazione e comunicazione di prossima generazione, al cui riguardo dirigo una task force per il Ministero degli Affari Interni e della Comunicazione. Discussioni sulle relazioni di sicurezza nippo-americane non erano nella mia agenda.

Tuttavia, semplicemente perché sono un amico di vecchia data del primo ministro Yukio Hatoyama e, talvolta, ho l’opportunità di scambiare idee con lui, i quotidiani Nikkei e Yomiuri hanno ripetutamente descritto la mia visita negli Stati Uniti come quella di un inviato segreto del primo ministro, mandato per aprire la strada a una soluzione del problema pressante di Futenma. La diplomazia parallela è sempre da evitare, visto che condurre negoziati su un piano separato quando negoziati ufficiali sono in corso non può che confondere la situazione, ed io non sono così stupido da impegnarmi in tale attività. Infatti, considerata la delicatezza del periodo del viaggio, ho intenzionalmente evitato i dipartimenti di Stato e della Difesa, l’ufficio del presidente, e altri con competenza nelle relazioni nippo-americane, e limitato le mie visite e colloqui ai think tank di Washington coinvolti nelle relazioni internazionali, la Banca Mondiale, la Inter-American Development Bank, e giornalisti e specialisti che si occupano di energia e problemi ambientali.

Coloro che proprio di recente dicevano: “La missione di supporto logistico del Giappone nell’Oceano Indiano è la prova vivente dell’alleanza nippo-americana, e se finisce, l’alleanza crollerà”, ora insistono che “se il Giappone non mette in pratica i termini dell’accordo nippo-americano sul trasferimento di Futenma, l’alleanza Usa-Giappone si romperà”. Molti dei corrispondenti a Washington dei media giapponesi sono solo in grado di riportare che “si profila una rottura delle relazioni amichevoli tra Stati Uniti e Giappone”.

Per l’appunto queste persone cosa intendono per “relazioni amichevoli tra Stati Uniti e Giappone”? Oso dire che pensano che sia auspicabile mantenere le relazioni nippo-americane dell’era Bush-Koizumi, quando il Giappone rispose prontamente alle aspettative americane di far “sventolare la bandiera”, con l’invio delle Forze di autodifesa prima nell’Oceano Indiano e poi in Iraq. In altre parole, i resoconti del mio viaggio negli Stati Uniti riflettevano la reazione eccessiva di chi considera la collaborazione sulla sicurezza nippo-americana come uno status quo permanente, al quale ogni cambiamento è sgradito.

Tuttavia, abbiamo assistito al fallimento della guerra in Iraq. Gli Stati Uniti hanno sacrificato le vite di oltre 5.300 soldati in Afghanistan e in Iraq, mentre hanno speso più di mille miliardi di dollari per le guerre. L’iniziatore della guerra, lo stesso presidente Bush, ha concluso che la guerra in Iraq era basata su informazioni errate, e si stima che la guerra è costata la vita ad almeno 100.000 iracheni. Negli stessi Stati Uniti, tale rivalutazione ha portato ad un cambio di paradigma, con l’oppositore alla guerra in Iraq Obama come presidente. Tra i giapponesi, è sorprendente quanto pochi siano stati disposti ad ammettere che la nazione ha preso la strada sbagliata quando è stata coinvolta in quella guerra. Ma non è possibile pianificare il futuro delle relazioni nippo-americane senza prima accettare sinceramente questi problemi. Questo perché un corretto riconoscimento del processo che ha portato alla riorganizzazione dell’apparato militare degli Stati Uniti dopo l’11/9 è la base per esaminare la fase successiva dell’alleanza tra Stati Uniti e Giappone.

Eppure, il pessimo odore emanato da coloro che si aggrappano alla collaborazione sulla sicurezza nippo-americana è appestante. Sento intensamente il bisogno di tenere a distanza quelli, a Washington, che vivono sulla sicurezza nippo-americana, quelli che sono generalmente indicati come “corrispondenti in Giappone” e “filo-giapponesi”. Queste persone accolgono i visitatori dal Giappone con sorrisi sui loro volti, e spesso partecipano a simposi in Giappone, dove cantano le lodi della “alleanza nippo-americana come asse permanente”. Essi fanno sempre riferimento alle “responsabilità” dell’ospitare basi in Giappone e invocano una maggiore cooperazione con gli Stati Uniti, nel nome della “collaborazione internazionale”. Ovviamente, c’è un gruppo di “corrispondenti dagli Stati Uniti” e giapponesi “filo-americani” che cantano in coro, e questa reciproca dipendenza ha da tempo segnato la rotta per le relazioni Usa-Giappone.

Durante i miei viaggi negli Stati Uniti di questi ultimi anni, ho fatto uno sforzo per incontrare persone che hanno una visione più aperta del mondo e per ascoltare i loro pensieri sulle relazioni tra Giappone e Stati Uniti da una pluralità di prospettive. Questo perché volevo sentire pareri obiettivi che andassero al di là di interessi di parte e preconcetti, al fine di stimare lo stato attuale dell’alleanza nippo-americana in una prospettiva più ampia.

Quello che sono stato sorpreso di trovare è che, persino fra gli intellettuali di alto livello e gli specialisti in questioni internazionali, la maggior parte di coloro che non sono direttamente coinvolti nei rapporti Usa-Giappone non hanno alcuna conoscenza della realtà dell’alleanza (lo status delle basi e il contenuto del SOFA). Potrebbero iniziare la loro risposta con “l’interesse nazionale degli Stati Uniti a parte”, ma rispondono al fatto che questa è la realtà in corso con espressioni confuse e onesto dubbio.

Vorrei inoltre menzionare un’esperienza sconvolgente che ho avuto quando ho visitato la Cina per tenere una conferenza all’Università di Pechino in ottobre. Nel discutere dell’alleanza USA-Giappone con una serie di diplomatici e di specialisti nelle questioni internazionali, spesso menzionavano con sincera preoccupazione la teoria del “tappo sulla bottiglia”. In breve, questa è l’idea che, se un crescente senso di autonomia giapponese porta al ritiro delle forze militari Usa, il “tappo” che sopprime la rinascita del militarismo giapponese sarà eliminato, provocando l’allarme dei vicini del Giappone in Asia. Questo mi ha reso consapevole dell’ironia che non sono solo quelli che vivono sulla sicurezza nippo-americana a voler mantenere l’attuale quadro, ma la stessa Cina confida nella presenza costante dei militari Usa in Giappone.

Si può solo sorridere amaramente sulla realtà perversa della sicurezza nippo-americana, ma ciò che noi giapponesi dobbiamo concludere è che la pace e la sicurezza del Giappone deve essere garantita attraverso l’esercizio della volontà del popolo giapponese stesso. È nostra responsabilità esercitare un estremamente pacifico autocontrollo che non rappresenti alcuna minaccia per i nostri vicini.


L’essenza della sicurezza nippo-americana e i cambiamenti post-guerra fredda

Non c’è bisogno di ricordare che il sistema di sicurezza nippo-americano è stato istituito nel contesto della Guerra Fredda. Ciò è stato chiaramente affermato dal primo ministro Shigeru Yoshida, che ha viaggiato fino a San Francisco nel 1951 come iniziatore di questo sistema dal lato giapponese. Nel capitolo 19 (“Le origini del sistema nippo-americano di difesa reciproca”) del suo libro di memorie (Kaiso Jūnen [Ricordi di 10 anni]), Yoshida ha scritto che il trattato di sicurezza nippo-americano non è stato né imposto dagli Stati Uniti, né richiesto dal Giappone. Piuttosto, Yoshida e il segretario di stato John Foster Dulles ebbero “la stessa percezione delle condizioni oggettive e le prospettive per la difesa del Giappone e la difesa del mondo libero, e decidemmo che non c’era politica migliore per colmare il vuoto nella difesa del Giappone che sarebbe derivato dal ritiro dell’esercito di occupazione dopo il trattato di pace”, ha spiegato. Yoshida ha poi aggiunto: “Il trattato di sicurezza, come il trattato stesso presuppone in modo chiaro, è una misura del tutto provvisoria. Vale a dire, se la capacità del Giappone di difendersi da solo si è rafforzata a sufficienza, o se le condizioni internazionali migliorano drasticamente e viene meno il bisogno del trattato, allora può essere risolto in qualsiasi momento”.

Il Trattato di Sicurezza Nippo-Americano ha avuto inizio nel contesto della guerra fredda ed era a carattere provvisorio. Da allora fino alla fine degli anni ’80, bisogna dire che il trattato ha funzionato efficacemente come quadro per la sicurezza nello stallo causato dalla guerra fredda con il blocco orientale. Tuttavia, nell’inerzia di questi quattro decenni, i successori di Yoshida, sia politici che diplomatici, si sono fatti incatenare al quadro della guerra fredda. Hanno abbandonato la capacità di concepire politiche flessibili che trascendessero tale quadro in risposta attiva al cambiamento delle condizioni del mondo. E tutto questo continua ancora oggi.

Alla vigilia della Conferenza di Pace e di San Francisco e della firma del Trattato di sicurezza nippo-americano, Shigeru Yoshida disse ai giovani diplomatici del suo entourage: “Io sono pronto a firmare, essendo giunto alla conclusione che sia opportuno procedere alla ricostruzione del dopoguerra e ricercare la sicurezza come membro del campo occidentale, ma dovete esaminare le opzioni diplomatiche del Giappone con flessibilità”.

Emergendo dall’era della guerra fredda, il muro di Berlino è stato abbattuto nel 1989 e il mondo è entrato nell’era post-guerra fredda. Il sistema di sicurezza nippo-americano, la cui logica premessa era la guerra fredda, avrebbe dovuto essere radicalmente riesaminato nel contesto della mutata situazione mondiale. Tuttavia le condizioni in Giappone non lo permisero. Il “sistema 1955” che ha opposto il Partito Liberal Democratico (LDP) al governo contro il Partito Socialista del Giappone (JSP) all’opposizione, in quella che equivaleva ad una guerra politica per procura nello stallo Est-Ovest, perse la sua ragione di esistenza, e la scena politica negli anni ’90 divenne molto più fluida. Nel 1993 il gabinetto Miyazawa divenne l’ultimo di una serie ininterrotta di governi monopartito LDP, e una successione di governi di durata relativamente breve seguirono per il resto del decennio. Questo periodo vide anche la nascita del gabinetto Murayama, a capo di una coalizione tra LDP e JSP. Non è stato possibile costruire nuove basi diplomatiche in questo contesto.


Shigeru Yoshida firma il Trattato di Sicurezza Nippo-Americano, 8 settembre 1951


Durante quel primo decennio post-guerra fredda, il Giappone avrebbe dovuto rivedere il suo sistema di sicurezza USA-centrico, proprio come ha fatto la Germania nel 1993. Come risultato della revisione delle basi americane in Germania, le forze americane sono state tagliate da 260.000 a 40.000, ed il SOFA è stato rivisto. Al contrario, sulla base della percezione che la guerra fredda non fosse finita in Asia, il Trattato di sicurezza nippo-americano ha continuato ad essere rinnovato automaticamente. Nella misura in cui c’è stato un riesame, si è limitato alla Dichiarazione Clinton-Hashimoto del 1996, che ha riaffermato il trattato di sicurezza e la revisione nel 1997 degli orientamenti per la cooperazione USA-Giappone nel settore della difesa.

In realtà, gli orientamenti revisionati introducevano disposizioni che nascondevano un grande pericolo. Le emergenze che il trattato di sicurezza avrebbe dovuto affrontare (fino ad allora definite per includere “situazioni nelle aree circostanti il Giappone”) non erano più limitate all’Estremo Oriente, ma invece erano state ridefinite come situazioni che si riteneva avessero “un impatto importante sulla pace e sicurezza del Giappone”. In altre parole, si creava così la possibilità per il Giappone di cooperare militarmente con gli Stati Uniti ovunque nel mondo, se solo una situazione fosse stata considerata una minaccia per la pace e la sicurezza giapponese.

Si deve notare che il contesto di queste decisioni era la percezione dello stato del mondo negli anni ’90. Era diventato un luogo comune discutere della “egemonia unipolare” degli Stati Uniti nel mondo post-guerra fredda, e di descrivere gli Stati Uniti come “l’unica superpotenza”. Senza un attento esame, il Giappone è divenuto sempre più integrato nelle strategie globali americane. Così stavano le cose quando siamo entrati nel 21° secolo, e quando gli Stati Uniti hanno subito lo shock dell’11/9 e l’amministrazione Bush, in un momento di follia, ha invaso l’Afghanistan e l’Iraq, l’avventata decisione che “il Giappone non aveva altra scelta che andare insieme con il Stati Uniti” era inevitabile.

Durante i sessanta anni dalla firma del Trattato di sicurezza, ciò che è incomprensibile nel mezzo del contesto in evoluzione è la sempre maggiore quota dei costi sostenuti dalla controparte giapponese. Originariamente, il SOFA non imponeva spese a carico del Giappone. Ai sensi dell’articolo 24 della convenzione, le spese di mantenimento delle forze Usa in Giappone erano sostenute, non dal Giappone, ma dagli Stati Uniti. Il Giappone doveva fornire il terreno per le basi, ma le spese di mantenimento erano a carico degli Stati Uniti. C’erano anche casi in cui gli Stati Uniti pagavano un canone di utilizzo, proprio come pagavano il governo delle Filippine per l’utilizzo della base navale di Subic e la base aerea di Clark fino a quando gli Stati Uniti si ritirarono da queste basi nel 1992.

Nondimeno, gli oneri a carico del Giappone sono aumentati costantemente negli anni. A partire dal 1978, quando il direttore generale dell’agenzia di difesa Shin Kanemaru offrì di pagare parte delle spese di welfare dei dipendenti giapponesi delle forze Usa, in ciò che egli definiva un “budget simpatia”, la ripartizione dei costi con il Giappone è diventata la norma. Se si includono i costi di affitto dei terreni e i provvedimenti per le aree circostanti le basi, il governo giapponese continua a pagare circa 600 miliardi di yen (circa 6,7 miliardi di dollari) l’anno in spese associate alle basi degli Stati Uniti. Nei 20 anni dalla fine della guerra fredda, il popolo giapponese, attraverso le sue tasse, si è fatto carico come “costo della sicurezza” di più di 10.000 miliardi di yen (circa 110 miliardi di dollari) per le spese relative alle basi americane.

Da nessun’altra parte al mondo il paese ospitante paga il 70 per cento dei costi delle basi militari Usa, e ci si accorge presto che ciò contribuisce alla difficoltà di cambiare lo status quo. La consapevolezza che il Giappone è il posto più economico del mondo per lo stanziamento delle forze americane permea la struttura militare degli Stati Uniti, e i pagamenti del Giappone alimentano la popolazione, negli Stati Uniti ed in Giappone, che vive grazie all’accordo di sicurezza tra Giappone e Stati Uniti. Lo scorso autunno, quando il nuovo governo del Partito Democratico del Giappone ha effettuato la sua revisione della spesa, si è sottolineato che le retribuzioni corrisposte ai dipendenti giapponesi delle basi Usa in Okinawa sono il 20-30 per cento superiori rispetto a quelle dei salari pagati per le occupazioni equivalenti nel settore civile. C’è stata una discussione per parificare questi salari, che è stata investita dai commenti furiosi di un rappresentante dei lavoratori delle basi, uno scambio che ha solo evidenziato la complessità del problema delle basi.

In ogni caso, non c’è stata nessuna revisione strutturale del dispositivo di sicurezza nippo-americano nel corso della prima “decade perduta” dell’era post-guerra fredda. Quindi, entrando nel nuovo secolo, siamo stati messi di fronte all’11/9 e alla conseguente “ristrutturazione” dell’apparato militare statunitense, che ha ulteriormente trasformato l’alleanza nippo-americana.


Cosa ha comportato la ristrutturazione militare degli Stati Uniti?

L’analista militare Kensuke Ebata, morto nel 2009, ha sempre basato le sue analisi su conoscenza e informazioni accurate, ed era meritevole del massimo rispetto. Il suo libro del 2005, Beigun Saihen (“Ristrutturazione delle forze militari statunitensi”), era una lucida analisi della realtà che si nasconde dietro la riconfigurazione delle forze armate Usa in Giappone. “Gli Stati Uniti stanno progettando di utilizzare il Giappone”, scriveva, “come una postazione avanzata sul lato opposto del Pacifico, dalla quale approvvigionare e dispiegare truppe quando necessario”. Riconoscendo questo come il vero carattere della ristrutturazione, Ebata ha suggerito che questi obiettivi non coincidono con quelli del Giappone e ha indicato che “il pericolo si annida” nella ristrutturazione. Egli ha fatto delle proposte strategiche per la riduzione ed il trasferimento delle basi, la revisione del SOFA, e la riduzione del “budget simpatia”. Faremmo bene ad ascoltare i suoi avvertimenti e a seguire le sue raccomandazioni.

La ristrutturazione delle forze armate statunitensi, a cui le autorità militari negli Stati Uniti si riferiscono come “trasformazione”, era una strategia sviluppata in risposta alla guerra in Iraq e alla guerra al terrorismo, guidata dal segretario alla difesa dell’amministrazione Bush, Donald Rumsfeld. I suoi obiettivi erano, innanzitutto, di aumentare l’efficienza della guerra al terrorismo, includendo l’uso di attacchi preventivi; e, in secondo luogo, di rafforzare le operazioni congiunte con le forze alleate. Questi obiettivi si discostano dagli obiettivi originali del rapporto di sicurezza nippo-americano.

In un convegno a Tokyo sulle relazioni Usa-Giappone nel dicembre 2009, l’ex vice segretario di stato Richard Armitage rivolgendosi al pubblico ha detto: “La ragione per cui potete dormire in pace questa notte è perché gli Stati Uniti proteggono il Giappone”. Sono sicuro che le sue intenzioni fossero buone, ma ha omesso di riportare con precisione il fatto che, sfortunatamente, l’apparato di sicurezza Usa-Giappone ha deviato troppo dalle sue origini nel “proteggere il Giappone” e nel “proteggere la sicurezza dell’Estremo Oriente”. È stato trasformato in fondamento per le operazioni congiunte nella “guerra dell’America” – la guerra al terrorismo, concentrata sul fondamentalismo islamico dal Medio Oriente all’Asia Centrale. Combattere i terroristi che fanno appello al fondamentalismo islamico aumenta sottilmente l’odio verso l’Islam in generale e corre il rischio di infiammare uno scontro di civiltà. Dal punto di vista del Giappone, è assurdo posizionarsi in un quadro dove l’Islam è visto come una minaccia alla sicurezza del Giappone.

Mi sono occupato dei problemi del Medio Oriente a partire dal 1980, e penso che i giapponesi debbano essere consapevoli che molte persone nei Paesi mediorientali nutrono rispetto e simpatia per il Giappone come unico Paese sviluppato che non ha esportato armi né si è intromesso in alcun Paese del Medio Oriente. Inoltre, a differenza degli Stati Uniti, non ci sono pressioni interne in Giappone per sostenere la parte israeliana nel conflitto Israelo-palestinese. Dobbiamo essere consapevoli di dove si trova il Giappone e comprendere che ci sono cose nel mondo che devono essere affrontate congiuntamente con gli Stati Uniti ed altre invece no.


Esaminare da capo la “minacce” che circondano il Giappone

Alla fine del primo decennio del 21° secolo, con il mondo in mezzo a grandi cambiamenti strutturali, quali sono esattamente le minacce alla sicurezza giapponese? Dobbiamo riconsiderarle a mente fredda.

La Russia rappresenta una minaccia? Sebbene sia vero che vi sono controversie tra il Giappone e la Russia sui territori del Nord e sui diritti di pesca, la possibilità di un’aggressione militare che esisteva durante l’era sovietica non è più realistica. Piuttosto, incidenti come la guerra tra Russia e Georgia nel 2008 aumentano le tensioni tra Stati Uniti e Russia, e se queste tensioni conducono ad una nuova guerra fredda, la minaccia più probabile è che il Giappone verrebbe coinvolto in una guerra americana come un alleato degli Stati Uniti .

Che dire a proposito della minaccia dalla Corea del Nord? A dire il vero, il continuo sviluppo di missili e di capacità nucleare della Corea del Nord, sproporzionati rispetto alla sua forza nazionale, la rendono una minaccia. Ma la minaccia della Corea del Nord di oggi è diversa da quella che rappresentava durante la guerra fredda. In quel caso, l’invasione nord-coreana del sud rappresentava un’azione militare con il supporto dell’Unione Sovietica e della Cina, che poneva la minaccia di trasformare la Corea del Sud ed il Giappone in stati socialisti. Oggi, la minaccia nord-coreana è quella di uno “stato canaglia”, priva di un messaggio in grado di mobilitare la simpatia del mondo; è come il grido di morte dello Stato “priorità all’esercito”, orfano della guerra fredda, e serve solo ad approfondire l’isolamento della Corea del Nord.

Tuttavia, una disperata invasione nordcoreana del Sud non può essere esclusa del tutto, e la forza deterrente data dalla presenza dei marines Usa in Okinawa deve essere riconosciuta. Ciononostante quello che è più importante per il Giappone è di perseguire una strategia diplomatica che renda i missili nordcoreani e le armi nucleari inutilizzabili, e di continuare a guidare l’iniziativa per un nord-est asiatico denuclearizzato che includa anche Russia, Cina, Corea del Sud e Stati Uniti.

Che dire della minaccia militare cinese? Le spese militari cinesi sono aumentate ogni anno per 21 anni, e il bilancio 2009 è stato di 70,3 miliardi di dollari (un aumento del 14,9 per cento rispetto all’anno precedente), che è sensibilmente superiore al bilancio militare del Giappone (4.700 miliardi di yen ovvero 52 miliardi di dollari nel 2009). Tenuto conto del basso costo del personale in Cina, è chiaro che il Paese sta mirando a costruire una portentosa dotazione di armamenti. Molti sono influenzati dalla logica che l’alleanza nippo-americana deve essere rafforzata per far fronte a questa minaccia cinese, ma la realtà non è così semplice. Questo a causa dei cambiamenti nelle relazioni Usa-Cina. Il dialogo di alto livello strategico-economico sino-americano avviato nel 2006 è stato aggiornato sotto l’amministrazione Obama nell’aprile 2009 per includere questioni politiche e di sicurezza. Nel frattempo, quasi 500 società americane partecipano ora all’US-China Business Council, il quale, in contrasto con la recente pigrizia dell’US-Japan Business Council, ha incrementato l’intensità degli scambi.

Detto questo, cerchiamo di indagare se il Trattato di sicurezza nippo-americano entrerebbe in gioco e se gli Stati Uniti agirebbero nel caso in cui la Cina, in un ipotetico scenario, dovesse occupare con la forza le isole contese di Senkaku (Diaoyu). Dal punto di vista giapponese, dato che le Senkaku sono state sotto l’amministrazione degli Stati Uniti fino al momento in cui Okinawa ritornò al Giappone, non vi è alcun dubbio circa il possesso giapponese delle isole. Ma negli ultimi anni, come si vede dalle dichiarazioni dei diplomatici americani secondo le quali gli Stati Uniti non vogliono essere coinvolti in dispute territoriali tra Cina e Giappone, la posizione degli Stati Uniti è ambigua. Probabilmente, in una visione oggettiva, il governo americano presterebbe ascolto all’opinione pubblica americana, e se arrivasse alla conclusione che sia opportuno intervenire, potrebbe difendere le isole Senkaku.

Impegnarsi in congetture di questo tipo porta a concludere che le minacce che il Giappone e gli Stati Uniti devono affrontare congiuntamente sono drasticamente cambiate e non sono sempre chiaramente definite. Dal punto di vista giapponese, né eccessive aspirazioni, né eccessiva dipendenza sono ragionevoli. Piuttosto, la visione più realistica è quella che potrebbe essere definita una “ambiguità strategica”, dove la presenza degli Stati Uniti nell’alleanza nippo-americana funziona come una discreta leva simbolica in un momento di crisi, e offre una garanzia per il mondo che il Giappone non agisce in maniera solipsistica.


L’evoluzione dell’alleanza nippo-americana

Con questa comprensione dello status dell’alleanza in mente, a che tipo di relazione di sicurezza nippo-americana dobbiamo mirare nel 21° secolo? Con entrambi i governi che hanno un nuovo partito al potere, questo è un buon momento per esplorare nuovi contesti che trascendano gli interessi acquisiti e le idee fisse del passato.

Nel suo libro Embattled Garrisons: Comparative Base Politics and American Globalism, il direttore del Centro Reischauer per gli Studi sull’Asia orientale Kent Calder cita l’interessante statistica secondo la quale, nel corso degli ultimi 50 anni, la probabilità che un regime change in una nazione ospitante basi militari sia seguito da un ritiro delle basi è del 67 per cento, comprese le basi degli Stati Uniti. Se si fa una pacata valutazione della situazione dell’Asia orientale, è probabile che la presenza militare Usa in Giappone continuerà ad un certo livello, anche se nella forma di una “ambiguità strategica”. Tuttavia, dobbiamo procedere con la ricostruzione di una alleanza nippo-americana meritevole della fiducia reciproca, non con l’inerzia che ha prevalso fino ad oggi, ma sulla base di una serrata discussione. A tal fine, vorrei offrire le seguenti proposte:

1) Istituire un meccanismo di dialogo strategico tra Stati Uniti e Giappone, per facilitare le discussioni a livello di governi orientate al futuro delle relazioni nippo-americane nei settori dell’economia e della sicurezza, e per ridisegnare l’alleanza Usa-Giappone. In particolare, effettuare un dialogo strategico per approfondire la cooperazione nippo-americana nell’economia e industria, attraverso misure quali la cooperazione industriale e gli accordi di libero scambio; e un dialogo strategico sulla migliore sistemazione delle basi Usa in Giappone e sulla cooperazione nippo-americana in materia di difesa, per promuovere l’evoluzione del sistema di sicurezza.

2) Per quanto riguarda la sicurezza, chiarire il pensiero giapponese sugli obiettivi a lungo termine per l’alleanza militare nippo-americana. Ad esempio, facendo attenzione a non creare un vuoto militare in Asia orientale, esaminare la funzione di ogni base militare e struttura degli Stati Uniti, ed eliminare quelle che hanno esaurito la loro funzione, con l’obiettivo di una riduzione del 50 per cento in 10 anni (Si noti che l’articolo 2.3 del SOFA enuncia: “Le strutture e le aree utilizzate dalle forze armate degli Stati Uniti devono essere restituite al Giappone quando non sono più necessarie”).

3) Per quanto riguarda il SOFA, eseguire una graduale transizione dalle attuali basi militari americane, all’interno di una struttura gestita dal governo giapponese, per arrivare al dislocamento di forze americane nelle basi delle Forze di autodifesa giapponesi, dove sarebbero gestite di concerto (come previsto dall’articolo 2.4b del SOFA). (Si noti che l’ex ministro della Difesa Shigeru Ishiba una volta propose, con la stessa preoccupazione in mente, che “in futuro, per una questione di principio, tutte le forze americane devono essere dislocate in basi controllate e gestite dalle Forze di autodifesa”, in sostanza, che le basi devono essere utilizzate congiuntamente, sotto la sovranità giapponese.)

4) Per quanto riguarda la futura forma della sicurezza nippo-americana, esplorare scenari flessibili, incluso un accordo in cui il Giappone e la Corea del Sud sostengano un costo adeguato per il mantenimento, per un certo periodo di tempo, di una spedizione militare di emergenza nelle Hawaii e a Guam, come meccanismo per mantenere una presenza degli Stati Uniti ed evitare un vuoto militare in Asia orientale.

5) Il problema del trasferimento della base di Futenma dovrebbe essere considerato nel contesto della revisione a lungo termine del sistema di sicurezza nippo-americano, ma, dati i rischi per i residenti locali derivanti dall’uso continuato della base, si devono identificare rapidamente alternative realistiche che consentano di adempiere l’accordo con gli Stati Uniti per trasferire la base entro il 2014. In questo caso, considerando la pianificazione strategica degli Stati Uniti, il punto di accordo sarà probabilmente il mantenimento della forza combinata dei contingenti in Okinawa e Guam.

Se ci pensate, la prospettiva del “ritorno al senso comune” che ho menzionato all’inizio di questo articolo rievoca il pamphlet che Thomas Paine scrisse nel 1776, utilizzando per il titolo lo slogan “senso comune” che è stato poi utilizzato tra gli americani che incitavano all’indipendenza dalla Gran Bretagna. Paine sosteneva che secondo il senso comune la subordinazione e la dipendenza americana dalla Gran Bretagna rischiavano di coinvolgere le colonie in guerre inutili, combattute in nome della “giustizia britannica”, e faceva appello per l’indipendenza americana e l’amor proprio. Il contesto storico è diverso, ma questo spirito deve riecheggiare oggi nel cuore dei giapponesi.

Si sta avvicinando il tempo per noi di affrontare con calma una revisione del trattato nella nostra epoca.

(traduzione di Antonio Grego)


*Jitsuro Terashima, consigliere per la politica estera del primo ministro Yukio Hatoyama, è rettore dell’Università di Tama, presidente del Mitsui Global Strategic Studies Institute e presidente del Japan Research Institute. Suoi articoli compaiono regolarmente su “Chuo Koron”, “Sekai”, “Forbes”, “PHP” e “Asahi”, tra gli altri, ed ha un suo personale programma televisivo mensile.

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